Capitalismo, pandemia, controllo sociale. L’economia di guerra nello stato di emergenza (1)

In un libro uscito subito dopo il primo lockdown pandemico del 2020, dal titolo Lo spillover del profitto, denunciavamo “il linguaggio da tempo di guerra diventato subito virale nei mass media di regime (…) insieme al ritorno di una retorica patriottarda fuori tempo”, prendendo poi in considerazione alcuni fenomeni che potevano far ritornare alla mente situazioni tipiche di una economia di guerra. Citavamo, ad esempio, “la riconversione industriale in alcune fabbriche per la produzione di merci non più reperibili sul mercato nazionale, come le mascherine o i respiratori (…) la limitazione, certo notevole anche se limitata nel tempo, dei consumi interni, fatta eccezione per il settore alimentare e farmaceutico (…) l’aumento del risparmio privato, che diviene perciò obiettivo privilegiato sia dei fondi di investimento che delle emissioni dei titoli di stato”.[1] A tutto ciò si sarebbe aggiunto, poco tempo dopo, la speculazione sui prezzi dei generi di prima necessità, il coprifuoco di fatto, abbellito con il termine esotico di lockdown e l’introduzione di un lasciapassare per accedere a quasi tutte le attività, compresa quella lavorativa, anche qui camuffato con un termine falsamente ecologico, cioè il green pass.

L’origine della pandemia è da ricercarsi nel modello di sviluppo capitalistico, che comporta deforestazioni, grandi monoculture, allevamenti intensivi e distruzione dell’ambiente naturale e che ha così provocato lo “spillover”, cioè il salto di specie del virus. Il capitalismo quindi non può rimuovere le cause di questa pandemia o di altre che seguiranno. L’arrivo di questa pandemia era, inoltre, largamente prevedibile in anticipo solo osservando la catena di epidemie che si sono succedute dall’inizio del secolo, dalla SARS1 del 2003 alle influenze suina, aviaria, Mers ecc.

Stando così le cose l’unica possibilità che rimane al capitalismo è quella di trasformare la pandemia in endemia, per gestirla e trarne profitto. Ciò rende possibile continuare la produzione, e quindi l’accumulazione di profitti. I vaccini oggi esistenti sono decisamente interni a questa logica in quanto, per le loro caratteristiche, sono efficaci per evitare le forme gravi della malattia ma non per arrestare del tutto la diffusione del contagio. Un capitolo a parte meriterebbe poi il disastro provocato dallo smantellamento della medicina pubblica e, in particolare, della medicina di territorio e delle cure domiciliari, argomenti che abbiamo già a lungo trattato.[2] In questa sede vogliamo solo ricordare che una efficiente medicina del territorio avrebbe evitato moltissimi decessi e contribuito a non intasare i reparti di terapia intensiva nella prima fase dell’epidemia.

Torniamo alla questione dell’economia di guerra e ai suoi successivi sviluppi. Nel 2020 concludevamo “che, nonostante i fenomeni prima descritti, la situazione attuale non è quella di un’economia di guerra. Per lo meno non ancora. L’evoluzione verso una economia di guerra è una delle possibilità”, anche se esprimevamo qualche dubbio su una sua certa progressione automatica, che invece non era per niente assicurata. Quella conclusione era basata, già allora, sull’andamento della questione energetica.

Il blocco o il rallentamento della produzione a livello mondiale aveva provocato immediatamente il crollo della domanda di petrolio e del conseguente prezzo del greggio al barile. Tutto ciò contrastava con il fatto che in una economia di guerra la domanda di petrolio dovrebbe crescere, e molto, per sostenere lo sforzo produttivo bellico e le esigenze logistiche degli eserciti. Già dopo la crisi finanziaria del 2008 e la successiva recessione economica tutti i paesi produttori nel 2015/16 erano stati costretti a ridurre la produzione di greggio ma, poi, l’emergenza da pandemia aveva fatto precipitare la crisi già in corso. Le grandi corporation multinazionali del petrolio e del gas, in feroce concorrenza fra loro, non avevano naturalmente alcuna intenzione di mollare la presa sui loro profitti e puntavano a una – piuttosto dubbia in verità – ripresa della domanda e della produzione. Già allora però i guadagni più cospicui si realizzavano sul mercato finanziario: il crollo del prezzo del greggio aveva provocato immediatamente una impennata del prezzo dei derivati che funzionano come polizze di assicurazione contro il fallimento.

L’ipotesi più forte formulata in quel momento era stata quindi che la gestione della pandemia da coronavirus potesse costituire una simulazione di una situazione di guerra, ovvero un surrogato della guerra permanente che si era svolta finora in aree capitalistiche semiperiferiche, come il Medio Oriente, parti dell’Africa o l’Afghanistan e che coinvolgeva invece ora i paesi capitalisticamente sviluppati. Un surrogato che è contemporaneamente troppo e troppo poco: troppo per i sacrifici sociali che comporta e troppo poco per risolvere la crisi capitalistica. Dalla crisi dei mutui subprime del 2008 e dalla successiva recessione l’accumulazione capitalistica faceva già fatica a riprendersi e. ora, la pandemia stava dando un colpo molto duro alle speranze di ripresa. Quello che sembrava strano però è il fatto che i vari governi pensavano di trattare questa crisi come una normale crisi ciclica, a cui inevitabilmente sarebbe seguito un periodo di crescita, magica parola di cui tutti si riempiono la bocca.

Nel 2021 quindi la reazione capitalistica alla crisi è consistita ancora nel mettere in campo eccezionali stimoli monetari nella speranza di far ripartire l’economia reale: costo del denaro prossimo allo zero, quantitative easing, ogni sorta di garanzie sui prestiti, incentivi fiscali alle imprese. A questo fine le banche centrali stanno iniettando nel sistema enormi flussi di liquidità che, secondo le teorie monetariste alla moda, dovrebbero stimolare gli investimenti. Si scomoda addirittura il ricordo del Piano Marshall del secondo dopoguerra che avrebbe dato il là ai trenta anni gloriosi, ovvero alla golden age capitalistica degli anni 50/60.

È inutile però farsi illusioni: il Recovery Fund non è il Piano Marshall, oggi la situazione è completamente diversa. La Teoria Monetaria Moderna (MMT) negli ultimi anni è diventata di moda tra molti economisti di sinistra: secondo i teorici della MMT l’emissione di moneta in deficit da parte dello Stato si traduce immediatamente in investimenti produttivi ed in nuova occupazione, in realtà però il sistema non funziona così. I capitalisti privati sono disposti a prendere in prestito dalle banche il capitale monetario, anche se a tassi agevolati, solo se dall’investimento possono ricavare un profitto superiore o, quanto meno, uguale al saggio medio. “Ciò che governa un’economia capitalista (…) è la profittabilità degli investimenti dei capitalisti, che guida la crescita e l’occupazione, non le dimensioni del deficit pubblico.”[3]

Qui arriviamo al Recovery Fund e agli investimenti promessi che hanno scatenato i più diversi appetiti, in una specie di assalto alla diligenza da parte di tutti i gruppi o le lobby sociali e politiche – ciò che è veramente all’origine della grande ammucchiata nel governo Draghi. Parliamo quindi del PNRR (Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza) che prometteva per i prossimi cinque anni un rilancio dell’accumulazione capitalistica, quindi la fuoriuscita dalla crisi e l’avvio di una nuova fase di grande sviluppo economico.

Uno dei punti del piano prevede il finanziamento da parte dello Stato di grandi opere pubbliche e di nuove infrastrutture: si tratterebbe quindi di un ritorno a politiche neokeynesiane di “sostegno della domanda” attraverso ingenti opere pubbliche finanziate in deficit. Le infrastrutture e le grandi opere pubbliche costituiscono da noi il tradizionale terreno di pascolo per appalti e subappalti, legami oscuri fra imprese private e pubblica amministrazione con il relativo contorno di intermediari e faccendieri. L’aumento dell’occupazione che, in qualche modo, queste grandi opere inducono è in netto contrasto con le devastazioni ambientali e lo stravolgimento dei territori che esse producono, come è risultato già evidente in Val Susa con il TAV Torino-Lione e con la TAP nel territorio di Melendugno in Puglia.

La sanità pubblica rimane comunque la cenerentola del PNRR, che prevede un finanziamento totale per la sanità di 20,23 miliardi, cioè un misero 8% del totale, quantificabile in circa 250 miliardi.[3] Ciò è tanto più preoccupante se consideriamo che il Documento di Economia e Finanza (DEF) per il 2021, approvato il 22/4 dai due rami del Parlamento, conferma i tagli alla Sanità Pubblica per il triennio 2022-24 per un totale di circa 7 miliardi, oltre ad aprire la strada a una legge per attuare l’autonomia regionale differenziata. Dei 20,23 miliardi previsti la maggior parte, cioè 11,23 miliardi, saranno destinati all’ammodernamento del parco tecnologico e digitale ospedaliero, il che conferma la tendenza ospedalocentrica della Sanità, che già è stata all’origine di tanti problemi nel corso della pandemia, puntare sulla centralità dell’ospedale all’interno della struttura sanitaria è però senz’altro funzionale alla concentrazione dei profitti capitalistici nel settore, mentre per la medicina del territorio la misera cifra rimasta per gli investimenti è di 9 miliardi, che dovrebbero servire per la costruzione di “Case e Ospedali di Comunità” e per l’assistenza domiciliare. In conclusione niente lascia intravedere una inversione di tendenza rispetto alla massiccia privatizzazione della sanità e alla trasformazione della malattia in fonte di profitto, come ben si vede anche nella campagna vaccinale in corso, in cui le grandi multinazionali farmaceutiche che hanno acquisito i brevetti dei vaccini fanno il bello e il cattivo tempo.[4]

Siamo così arrivati quindi a uno dei punti forti del PNRR, cioè alla transizione ecologica e qui ritorna prepotentemente la questione energetica. Chiariamo subito che le varie forme di energia rinnovabile, dal solare all’eolico, sono già oggetto di investimenti e di profitti da parte di svariate aziende private; è possibile che questi investimenti crescano nel prossimo futuro ma è difficile che possano soppiantare, in un futuro prevedibile, le fonti estrattive, dal petrolio al gas. In un articolo scritto pochi giorni prima dello scoppio della guerra in Ucraina e pubblicato su Umanità Nova con il titolo “Il Gas ed i Venti di Guerra”, Daniele Ratti affronta lucidamente questo tema. Dice Daniele: “Relazioni internazionali ed energia sono fattori che si condizionano a vicenda: l’energia da componente economica si trasforma inevitabilmente in geopolitica modificando gli equilibri globali e nei “venti di guerra” di queste settimane il ruolo centrale spetta al gas.” Quindi “se il gas è anche arma geopolitica” rappresenta anche “il conto che la dipendenza energetica europea deve pagare a Mosca”.[5]

Nell’articolo si indicano tre soluzioni che, al momento consentirebbero di reagire al ricatto energetico russo. “La prima è la ricerca di nuovi giacimenti al di fuori dell’area di influenza di Mosca; la seconda è l’utilizzo del gas nella forma liquida (GNL); l’ultima, tutta da verificare, lo sviluppo delle fonti energetiche alternative.” Riguardo alla prima soluzione vengono citati il giacimento egiziano di Zohr (ENI è stata la protagonista della scoperta) e il consorzio East Med per lo sfruttamento del bacino di gas compreso tra Cipro e Israele. A ciò potremmo aggiungere un aumento delle importazioni di gas dall’Algeria o dall’Azerbaigian (vedi TAP), lo sfruttamento di alcuni giacimenti nell’Adriatico, mettiamoci pure la riapertura di alcune centrali a carbone e, dulcis in fundo, il ricorso alle centrali nucleari tanto caldeggiato dal ministro Cingolani. La seconda soluzione riguarda lo shale gas prodotto, soprattutto negli USA, con la tecnica del fracking che ha costi di produzione più elevati rispetto ai concorrenti e quindi ha bisogno di mercati mondiali in crescita per raggiungere almeno il profitto medio, oltre a provocare enormi danni ambientali. Inoltre lo shale gas viene commercializzato in forma liquida, il che comporta ulteriori costi e problemi di logistica rispetto ai gasdotti. Stando così le cose la tanto sbandierata transizione ecologica sembra rinviata a data da destinarsi, per usare un eufemismo.

Appunto però la terza soluzione riguarda la ricerca di nuove fonti energetiche rinnovabili, dall’eolico al fotovoltaico, e inoltre “una nuova organizzazione della produzione e distribuzione dell’energia, dove il digitale ne è la componente principale”. Qui la transizione ecologica si interseca e si fonde con l’altro punto cardine del PNRR e cioè con la transizione digitale. Citiamo ancora dall’articolo: “Si passa dallo ‘stato centralizzato’ dell’energia ad un ‘federalismo energetico’: la ricerca è orientata alla creazione di ridotte unità produttive (indipendentemente dalla fonte energetica) (…) di piccole unità energetiche (anche con combustibile nucleare). Tali unità oltre che consumare ciò che producono, immetteranno in rete il surplus e la direzione dei flussi energetici sarà quindi bidirezionale. Per governare questo processo l’azione del digitale è fondamentale. Lo strumento digitale saprà modulare, di volta in volta, la direzione dei flussi energetici dal centro alla periferia e viceversa ottimizzando la domanda e l’offerta – forzando il concetto, per renderlo ancora più comprensibile, si potrà realizzare il KM zero energetico.” Non ho dubbi sulla possibilità di realizzare con tecnologie informatiche queste meraviglie ma mi viene da pensare che una tale sofisticata organizzazione del lavoro richieda una elevata socializzazione delle forze produttive e un livello di pianificazione che, a prima vista, mi sembrano fuori dalla portata del modo di produzione capitalistico. (segue)

Visconte Grisi

NOTE

[1] AA. VV., Lo Spillover del Profitto. Capitalismo, Guerre ed Epidemie, a cura di Calusca City Lights, Milano, Edizioni Colibrì, 2020 –“L’Economia di Guerra al Tempo del Coronavirus”.

[2] In un convegno tenuto a Milano nell’aprile 2014, organizzato dalla Rete Solidale di Lotta, sulla privatizzazione della sanità uno dei temi trattati è stato proprio la crisi della medicina generale e della medicina preventiva del territorio.

[3] vedi ROBERTS, Michael, “La Teoria della Moneta Moderna”, in folio.asterios, 2020.

[4 Vedi “Il P.N.R.R. e la medicina del territorio” nel Bollettino “TANTA SALUTE A TUTTI”, Milano, Gennaio 2022.

[5] RATTI, Daniele, “Il Gas ed i Venti di Guerra”, in Umanità Nova, n. 6 del 27/02/2022.

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